L’altro scherzo

Io, avevo detto nulla. Accoglievo quella malattia come un amplesso forzato, cui non potevo sottrarmi. I primi sintomi erano cominciati due settimane prima: hotel, ore quattro. Sembra un’indicazione scacchistica, ma è solamente l’affermazione clinica della mia malattia. Il dottor Scerbanco s’era voltato con uno sguardo torvo, aveva aggrottato le sopracciglia e poi, fra un sussulto e l’altro:

– Ce l’ho fatta, finalmente. Trent’anni di professione mi ci sono voluti. La speranza è l’ultima a morire, anche in casi disperati come questo.

Io muto, le pupille riverse su quel mostro di scienza che mi toglieva il fiato. Ogni accenno alla malattia si trascina dietro a sé un condizionamento pregresso: si può parlare della peste senza inciampare in quella del ’48 o in un qualche sciocco che scomoda Manzoni senza averlo letto? La malattia è incurabile, è un agente innocuo che ha avuto la disgrazia di posarsi su un’epidermide fatale. Non è l’uomo a dover essere curato, è la malattia che cerca una via di fuga e viene infine contagiata. Mi ero perso in questi pensieri mentre il dottor Scerbanco compitava sotto i battenti di una grafia minutissima qualcosa che non riuscivo a decifrare. Una ricetta, forse. Le dimissioni dalla clinica, magari. Non si scampa mai al pericolo mortale di una clinica. Ci si rallegra d’esserne usciti e basta utilizzare l’olfatto per rendersi conto che non è una questione passata, ma una patina strisciante che si è impossessata del nostro corpo, dei nostri ricordi ormai impelagati in cadaveri errabondi e visioni di cui si farebbe volentieri a meno. È impossibile parlare della propria malattia senza riferirsi a quelle degli altri. Non ci si vuole, non ci si può credere malati, è troppo abbietta come idea, troppo rivoltante per non essere scartata e nascosta sotto un velo di silenzio. Anche il dottore, il temibile dottore che si è ritrovato in queste righe nelle vesti di guaritore sciamanico, anche lui è il futile pretesto della mia malattia, l’ennesimo, morboso segnale che questa storia non accenna a finire, è instancabile, si nutre di ciò che sembra respingerla, non vuole andare via, lasciarmi solo: la malattia odia la solitudine, non accetta il ritiro dall’ambiente mondano, no, è incredibile, si vorrebbe star soli e invece si è solamente malati, soli, sì, ma con la propria malattia pervicacemente conficcata, incuneata al faro dell’anima, che vede solo tempesta e nubi e coltri di disprezzo, è divenuta cieca, infine.

Anche il dottor Scerbanco – povero, povero dottore, fattosi strumento di un ideale e diventato infine egli stesso un utensile da lavoro, da lavoro letterario -, anche il dottore non si ricorda che nome gli fu dato, quale parte gli venne assegnata, per quanti soldi venne scrutinato. Forse era l’interprete principale ma il direttore teatrale durante le prove fu stupito dalla finzione del malato, dalla sua bravura attoriale, e gli soffiò il posto inscenando, questo sì, la più risibile e comica delle agnizioni: il malato a far da dottore e il dottore a voler spiegare che il dottore è lui, non l’altro. Semplicemente geniale.

Poi era partita la musica, discesa come miele che cola e punge i curiosi, qualcuno laggiù aveva intessuto una filigrana fantastica, i dischi erano stati regolarmente selezionati e via, fiat musica, musica fu. Ma successe qualcosa, dietro al palco, laggiù, nelle file del palchetto, dove di solito si nascondono gli urlatori seriali per quattro soldi. Si era alzato qualcuno e aveva esclamato questa parte è mia! è mia! è mia e io lo dimostrerò in tribunale, se necessario, è mia e ne rivendico i diritti, qui affianco c’è il mio avvocato, sì, che volete, è sempre più sicuro andare a teatro col proprio legale, in qualche modo ci si regala l’illusione di potersi difendere, si è più cauti nel recepire le parole che provengono dal palcoscenico, le si può proiettare sulla mente ingarbugliata di un uomo che ha speso cinque dei suoi anni migliori ad ingarbugliarsi la testa di cianfrusaglie, una in più non sarà uno scandalo, piglia e poche storie, avvocato. C’era stato un certo fracasso, agli spettatori non andava affatto bene, loro avevano pagato, volevano essere serviti, non presi in giro. E poi, in fondo, è la stessa cosa. Si recita per mettere le mani avanti, per non permettere agli altri di farsi dire oh che buffo! che comico! no, signori, un momento, c’è un equivoco, questa è semplicemente la mia parte, nulla di grottesco, sto lavorando, lasciatemi in pace, fatevi gli affari vostri. Si recita per non essere recitati, ecco, è una nefanda precazione, una di quelle assicurazioni che oggi vanno molto di moda, ne sento di molte, ne leggo sui giornali, anche. Poi prima di morire ci si chiede perché, perché non si ha avuto il coraggio di sobbarcarsi la propria parte, tanto tutto il mondo è teatro, all the world is but a stage, lo dice il poeta, chi siamo noi per contraddirlo? Vergogna, vergogna. Forse il poeta mentiva, mentiva anche lui, pavido e verecondo, mosso da secondi fini, volle far passare per buona questa frase proprio perché la sua carriera da attore volgeva al declino, aveva bisogno di soldi, che qualcuno lo ascoltasse: questo era il modo migliore, si è sempre disposti ad ascoltare qualcosa di esagerato, tanto le conseguenze non ricadono su di noi ma su chi ha avuto l’ardire di provocarle.

Era, me ne rendo conto solo ora, una notte silente e tempestosa. Era molto tempo che volevo scriverlo. Ora che l’ho fatto sono felice.

Andrea Muratore

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